Ed eccoci qui, alla fine della “settimana santa” dello spettacolo – di certo un po’ trash – italiano a tirare le fila di ciò che si è sentito e ascoltato, sperando che sia rimasto qualcosa di buono oltre all’intrattenimento e alle canzoni che stanno già spopolando in radio.
Per me, quest’anno, il Festival di Sanremo non ha avuto grandi sorprese: durante le prime due serate nessuna canzone mi ha particolarmente convinto, e durante l’ultima serata mi sono ritrovata a dire “beh, non male questa”, oppure “non pensavo, ma alla fine è orecchiabile”, per quasi tutte le canzoni, ovviamente mentre le canticchiavo nella mia testa. Alla fine con Sanremo è sempre così, no? Al primo ascolto nessuna canzone convince, poi diventano (quasi) tutte un’ossessione.
Oserei dire che il podio ha rispettato le aspettative: i due vincitori, Mahmood e Blanco, erano i preferiti sin dalla prima sera, e, devo ammetterlo, nonostante la loro “Brividi” non faccia parte della mia rosa dei generi musicali, mi porta molta allegria e trasporto.
Okay, basta chiacchiere. Veniamo al sodo, perché voglio parlarvi di una questione per me molto importante. Prima di tutto vorrei chiedervi: durante queste cinque serate vi siete mai chiesti come fanno i sordi a seguire il festival musicale più importante per l’Italia? Sono qui per illuminarvi!

Innanzitutto: certo, naturalmente anche i sordi possono godersi il festival, perché per il terzo anno consecutivo, il festival è accessibile in LIS (lingua dei segni italiana), attraverso la piattaforma Raiplay, la quale rende disponibili anche i sottotitoli.
Ci tengo particolarmente a questa causa, e voglio incentivarvi a fare la vostra parte. Se provate, anche solo per una canzone, a guardare l’interpretazione in LIS, sono sicura che rimarrete senza parole. Gli interpreti sono in grado di trasmettere tutte le emozioni delle canzoni (come del resto fa qualsiasi lingua), con un’energia enorme. Vi invito a provarci, magari guardando l’interpretazione della canzone che ha vinto. Dove lo potete vedere? Beh, niente di più facile: basta che clicchiate su questo link (clicca qui)
Posso immaginare cosa starete pensando, forse la stessa cosa che mi ha detto ogni sera del Festival di Sanremo il mio fratello minore: “ma perché io, che non sono sordo, devo ridurmi a guardare mezzo schermo con anche i sottotitoli?”. La risposta è semplice: ogni singolo accesso a un contenuto accessibile aiuta a trasmettere un messaggio importantissimo, e cioè che se i servizi ci sono, vengono usati, perché servono, perché sono segni di #inclusione, di civiltà.
In poche parole: bastano poche piccole azioni per rendere il mondo un posto migliore. E magari a voi non sembrerà possibile, ma anche una banale visualizzazione ad un contenuto di questo tipo può essere un piccolo passo verso una grande differenza.
Tuttavia, mentre sto scrivendo queste righe, i pensieri che mi frullano in testa sono altri. Sono pensieri che riguardano la disabilità, e, soprattutto, la sua rappresentazione nella televisione italiana. Mi riferisco, in particolare, al monologo che ho sentito venerdì riguardo la serie tv di rai fiction, Blanca. So che molti non capiranno ciò che sto per dire, ma, da disabile e da persona che ricopre diversi ruoli all’interno di questo mondo, il modo in cui è stato affrontato l’argomento mi ha lasciato un po’ di amaro in bocca. Ciò che è stato sottolineato è quel fascicolo di commenti della così detta “tv del dolore”: i protagonisti, chiamati “guardiani”, non hanno quasi parlato, se non per ringraziare la Rai per l’attenzione riservata alla loro cecità. È stato sottolineato più volte come loro “non vivessero di fretta”, senza pensare che, magari, a volte vorrebbero poter vivere la vita quotidiana indaffarata di tutti i “””normali”””, cosa che, se la società fornisse i mezzi, potrebbero fare. Il tutto è stato fatto mentre queste quattro persone venivano toccate e spostate, invadendo, a parer mio, lo spazio personale di ognuno. Sarà la mia paranoia, o il mio vedere il mondo come dovrebbe essere (dato che di disabilità ne so qualcosa), e forse sbaglio anch’io perché, magari, sono stati gli stessi interessati a voler trattare l’argomento così. Io sono forse un caso a parte, ma in una società come la nostra, in cui le ingiustizie non si possono oramai più contare, e in cui siamo bravi solo a parole, avrei concentrato l’attenzione sull’aspetto più autoironico, per trasmettere un messaggio importante in un modo leggero, di modo da essere il più incisiva possibile.
A tal proposito ci tengo a citare il monologo della fantastica Drusilla Foer (madrina della terza puntata) che ha sottolineato una cosa che ripeto da anni: basta parlare di diversità, parliamo di unicità! I disabili non devono continuare a essere considerati i diversi, coloro che hanno bisogno di essere perennemente accarezzati e commiserati, sono persone uniche come tutte le altre, che, forse, hanno bisogno di qualche strumento in più.
Non fraintendetemi: tutto quello che ho fin qui citato – come del resto la vittoria stessa di Mahmood e Blanco – sono segno che vi è la volontà e la necessità di fare un passo avanti. Vorrei però sottolineare che, purtroppo, le buone intenzioni non bastano: occorre fare di più, occorre farlo presto, e, soprattutto, occorre farlo bene, includendo le persone che davvero conoscono le problematiche e, di conseguenza, vedono più chiaramente le soluzioni. Dobbiamo capire che, per trasmettere certi messaggi, è di fondamentale importanza interpellare le persone interessate, e non limitarsi a fare da portavoce.
– Francesca

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