«[…] Per Hasari Pal e milioni di esuli che si ammucchiavano nelle sue bidonville, Calcutta non rappresentava né cultura, né storia. Solo la speranza di un altro giorno di vita. In una metropoli di quelle dimensioni c’era sempre qualche briciola da raccattare. Mentre in un villaggio inondato dal monsone o arso dalla siccità, non esisteva più neanche la speranza delle briciole.»
La città della gioia (Dominique Lapierre)
Pasqua è ormai alle porte. Le prime colombe sono già state addentante, e lo scambio delle uova di cioccolato – di sottomarca , perché quelle Kinder ormai costano troppo – è già iniziato. C’è anche chi già pianifica per la grigliata di Pasquetta. E poi ci sei tu, inorridito dalla montagna di roba che devi studiare. Dopo l’ennesimo imprevisto, rotei gli occhi dicendo: “mai una gioia”.

La gioia la porto io, perché oggi parlerò di un libro a me molto, ma molto (sul serio… molto) caro: La città della gioia (La Cité de la joie), un bellissimo romanzo scritto da Dominique Lapierre (Oscar Mondadori, 1985).
Con stile naturalista-realista il narratore parla della vita di tre uomini che, per motivi diversi, si recano tutti nella popolosa Calcutta. Le loro storie, inizialmente indipendenti, s’incroceranno nel povero quartiere della Città della gioia: il contadino Hasari Pal vi si trasferisce perché spera di trovare lì un lavoro che gli permetta di accudire la propria famiglia; Paul Lambert con atti concreti testimonierà la presenza di Dio nella bidonville e Max Loeb, giovane studente di medicina, troverà una realtà che lo farà diventare uomo.
«I gesti della solidarietà vengono veramente avvertiti e apprezzati come tali al livello più elementare. Un semplice sorriso può avere lo stesso valore di tutti i dollari del mondo.»
Tu, lettore, verrai sedotto all’interno del romanzo da una scrittura semplice e diretta, senza peli sulla lingua che ti farà ora arrabbiare, ora commuovere, provare disgusto o ammirazione. Sarai piombato in una Calcutta troppo affollata e rumorosa. Vedrai una bidonville sporca e disastrata. In ogni momento c’è un motivo per mettersi le mani nei capelli e rinunciare alla lettura. Eppure, il libro non lo si chiude mai, perché nonostante la sporcizia che ti arriva alle calcagna ci sono delle piccole perle che ti fanno dimenticare tutto: per esempio, la solidarietà tra gli abitanti della baraccopoli o la forza di Hasari Pal nel correre col suo risciò nonostante non abbia più una goccia di sangue in corpo ti lasciano a bocca aperta. E non fai altro che ammirarli perché nonostante tutte le sofferenze riescono a trovare una ragione per alzarsi la mattina e affrontare di petto l’ingiusta sorte a cui sono incatenati.
«Dove trovavano ancora la forza di fare i pochi passi che li conducevano fino al mio tavolo? Ai miei occhi erano già morti. Eppure mi sbagliavo. Quegli spettri vivevano. Si davano spintoni, litigavano, scherzavano. Era il miracolo della Città della gioia dove la vita sembrava sempre più forte della morte»
Alla fine, la città della gioia potrà essere disumana, però tempra la resilienza che maturi insieme ai personaggi. Ti insegna a resistere e a trovare la speranza, anche se ti trovi in una situazione molto dura. E forse il suo più grande insegnamento è proprio quello di sperare con tutto te stesso, perché è la speranza che ti fa battere il cuore… È la speranza che ti dà la vita.
Caro lettore, spero ti sia piaciuto questo articolo, però sono curiosa di sapere se conoscevi già questo romanzo o se per caso hai visto la trasposizione cinematografica del 1992, diretta da Ronald Joffé con Patrick Swayze nei panni di Max. O comunque, sono curiosa: hai mai trovato qualcosa che ti faccia battere il cuore al punto di farti esplodere di gioia? Scrivilo nei commenti, qui ad Afroditelo non vediamo l’ora di leggere!
-AK
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16 Aprile 2022 alle 9:04
Post scritto divinamente, complimenti! 🙂
16 Aprile 2022 alle 16:57
Grazie mille! 🙂