Buongiornissimo, poesia? ☕️
Sono sicura che il fenomeno che sto per descrivere sia piuttosto comune.
Ogni mattina appena mi sveglio, proprio mentre apro gli occhi ancora intorpidita dal sonno e dall’eco straniante di una trafila di sogni strampalati, sento materializzarsi dentro di me una canzone – la quale, frullandomi nel cervello con crescente insistenza, finisce poi per farmi compagnia per tutta la giornata, spesso spingendomi a canticchiarla tra me e me. Solitamente, l’ostinato motivetto leva le tende entro la mattina successiva, lasciando il posto ad un altro brano altrettanto caparbio. Eppure, per qualche ragione, da qualche settimana la canzone che mi ritrovo a cantare è sempre la stessa.
«Ti regalerò una Rosa è poesia, nuda e cruda», mi sono detta l’altro giorno, mentre la mia mente si perdeva tra i versi intensi e ingombranti della canzone di Simone Cristicchi. E Cristicchi – oltre ad essere un cantautore dal talento eccezionale – è, senza dubbio, un grande poeta. Di gente che scrive bene ce n’è tanta, ma Cristicchi è un homo faber di ben altra portata, perché dalla sua bocca escono mine e carezze, denunce ed inni, vite vissute e storie senza tempo; versi che anche se sussurrati rimbombano come grida capaci di muovere montagne o, a volte, capaci di fare tremare il cuore. Tutto questo, per me, si riassume benissimo in Ti Regalerò una rosa, canzone che resta, per me, una delle più belle e importanti mai scritte.
Proprio mentre mi chiedevo se fosse il caso di proporvela come poesia per il Buongiornissimo Poetico, mi è arrivato un messaggio di @anakarinaleal11, nel quale mi chiedeva di dare una letta ad una sua riflessione nata dopo la sua partecipazione ad un workshop. «Vedi tu se è il caso di pubblicarla da qualche parte, se troviamo un buco nel calendario»: direi che è assolutamente il caso di pubblicarla qui sotto.
Riflessioni dal manicomio: la cultura può salvare il mondo.
Qualche giorno fa ho partecipato a “Il manicomio e la città. Voci attraverso i muri – Scuola di storia orale”, un workshop che si è tenuto a Feltre. A più una settimana di distanza, vi voglio raccontare un po’ com’è andata e soprattutto condividere una riflessione importante, emersa inaspettatamente alla fine del laboratorio.
Ad esso partecipavano 10 esperti della ricerca storica che accompagnavano 30 “studenti” di diversa età e professione. L’obiettivo era duplice: insegnare come si fa un’intervista e contribuire alla ricerca storica promossa dal comune di Feltre, che vuole riportare alla memoria la storia del suo manicomio. Una storia che, purtroppo, si sta dimenticando, nonostante esso sia stato un attore importante della storia cittadina fino a fine anni ’90. In questo modo l’amministrazione comunale cerca anche di farsi vicina ai cittadini che hanno mostrato un crescente interesse verso il tema della salute mentale, specialmente dopo la pandemia.
In questa occasione ho potuto visitare la città di Feltre, nota come Urbs Picta; approfondire la storia dei manicomi italiani assistendo ad un convegno di esperti, e conoscere la storia del manicomio provinciale attraverso le interviste di coloro che ci hanno avuto a che fare. Inoltre, abbiamo avuto la possibilità di vedere un film che è stato girato lì, diretto da Gianluca Fumagalli. Il film si chiama “Café la Mama” e vederlo è stata un’esperienza intensa e struggente.
In realtà, tutta l’esperienza della scuola orale è stata intensa e struggente. Ci sono stati dei momenti in cui abbiamo raggiunto dei picchi di intensità a cui si poteva rispondere solo con il silenzio, perché il sangue ci si era raggelato.
Le emozioni le condividevamo anche con persone non iscritte alla scuola perché entrambi – sia la proiezione del film che il convegno – erano aperti al pubblico. Si è creato un ambiente in cui ci si scambiava la conoscenza scientifica con quella vissuta sulla propria pelle. E abbiamo capito che un dialogo interdisciplinare è necessario: le persone hanno bisogno di essere ascoltate, gli storici di sentirle per cercare di costruire una narrativa universale e oggettiva, i medici hanno bisogno del giudizio della storia per comprendere i falli (passati) del proprio campo e migliorarsi.
Oggi, per fortuna la malattia mentale è diversa dal concetto di “vergogna”. Per tutto il secolo scorso, secondo una legge del 1904, i manicomi proteggevano (non i matti, ma) la società da soggetti «pericolosi a sé o gli altri» che arrecavano «pubblico scandalo». Ma nonostante questi luoghi non esistano più e ci siano altri modi, più umani, per occuparsi di disabili, alcolisti, malati mentali, etc., la società sembra essere rimasta sorda.
L’unica soluzione è lasciare che la cultura parli, si confronti e si nutra della sua stessa eterogeneità. Noi in quanto membri di una comunità dobbiamo aiutarla in questo, proprio per creare una società che sia disposta ad ascoltare, che sia razionalmente più comprensiva ed empatica. In sostanza, una società migliore, lontana dagli errori incresciosi commessi in passato.
– Martina & AK
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