Dahmer – Mostro: la storia di Jeffrey Dahmer, la nuova serie Netflix che ha fatto tremare milioni di spettatori in giro per il mondo, la vicenda reale che ha fatto piangere diciassette famiglie negli Stati Uniti. Una pagina buia nella vita di alcune famiglie è stata portata sul grande schermo: qual è il limite tra intrattenimento ed etica? In questo articolo per Afroditelo, Beatrice (@beatrice-ferretti) e Sara (@sara-fontanot) fanno un’analisi di questa storia.

Prima della lettura ci teniamo a ricordare che i temi trattati in questo articolo sono tutti reali e non adatti alle persone più sensibili. Vi invitiamo quindi a leggere con cautela, ricordando che gli argomenti sono reali.

©Netflix Italia, DAHMER – Mostro: La storia di Jeffrey Dahmer | Trailer ufficiale 1 | Netflix

La linea sottile tra rappresentazione e realtà

La serie. Si scrive “Dahmer”, si legge “il serial killer che ha sconvolto il mondo per l’efferatezza dei suoi crimini”. Tanti amanti del genere crime lo scorso settembre hanno aggiunto alla loro lista di Netflix la serie “Dahmer – Mostro: la storia di Jeffrey Dahmer” e, dopo avere seguito tutti gli episodi con il fiato sospeso e trascorso le notti con la luce accesa, in molti hanno riferito di trovare un gran bel lavoro la nuova uscita firmata Ryan Murphy (autore di “American Horror Story” e “Ratched”) e Ian Brennan.

La trama. La particolarità che rende “Dahmer” diversa da molte altre serie tv crime è che tutto ciò che viene mostrato al suo interno è successo realmente. Tra la fine degli anni ‘70 e l’inizio degli anni ‘90, nello Stato del Wisconsin diciassette ragazzi sono stati adescati, drogati, assassinati. I loro corpi fatti a pezzi. Dietro ad ognuno di questi crimini c’è la figura di un ragazzo emarginato, con una famiglia che va in frantumi e una forte inclinazione all’alcolismo.

Attraverso l’occhio della cinepresa scopriamo però che tutto inizia molto prima: il Dahmer bambino che scopre come sezionare i corpi di piccoli animali grazie agli insegnamenti del padre medico, il Dahmer adolescente che affronta il suo interesse per gli altri ragazzi con difficoltà e repressione, il Dahmer adulto che negli anni scopre che la sua sessualità è anomala, che gli unici ragazzi con cui desidera avere un rapporto sono gli stessi ragazzi che adesca con la scusa di scattare loro alcune fotografie e poi brutalmente uccide.

L’incubo finisce quando Jeffrey Dahmer viene fermato il 22 luglio 1991 dopo che Tracy Edwards, la sua potenziale diciottesima vittima, riesce a fuggire dall’appartamento del serial killer e avverte la polizia.

Il processo a Dahmer inizia nel gennaio del 1992 e si conclude solo pochi mesi dopo: la condanna al “cannibale di Milwaukee”, come viene spesso chiamato, è di 957 anni di prigione. Dahmer trascorre in prigione il resto della vita, che dura soltanto pochi anni, fino a quando nel 1994 viene assassinato da un altro detenuto all’interno del centro penitenziario in cui stava scontando l’ergastolo.

Jeffrey Dahmer: tra disturbi mentali e mancanze sociali. La mente umana è estremamente complessa e spesso difficile da interpretare, per cui andare a individuare gli specifici fattori che hanno spinto un soggetto a compiere uno o più omicidi è estremamente complicato, soprattutto quando il caso non si è analizzato direttamente e non si è potuto interloquire con l’offender stesso. Comunque, secondo diversi studi e analisi psicologiche di esperti, Dahmer soffriva di diversi disturbi mentali, tra cui citiamo:

  • disturbo borderline di personalità;
  • diverse parafilie tra cui necrofilia, splancnofilia e cannibalismo.

Analizzando alcuni studi sul caso, sembra che alcuni fattori psico-sociali abbiano influenzato i comportamenti violenti e assassini di Dahmer, tra cui:

  • genetica;
  • uso di sostanze stupefacenti da parte della madre, anche durante lo sviluppo del feto;
  • depressione post partum da parte della madre;
  • violenza domestica, rapporto non sano e positivo tra i genitori;
  • assenza di figure adulte di riferimento, soprattutto di figure genitoriali;
  • mancanza di autostima, paura degli altri;
  • mancanza di una rete sociale e amicale;
  • impulsi sessuali repressi (tabù dell’omosessualità);
  • infanzia con molte possibilità di trauma.

Una parola che potrebbe racchiudere le vicende di Dahmer è “mancanza”: mancanza di supporto, di ascolto, di un ambiente positivo per lo sviluppo psico-fisico ed emotivo, di supporto psicologico e psichiatrico, di attenzione da parte di servizi sociali e polizia, etc. L’ambiente sociale è estremamente importante perché può essere un fattore protettivo. Come riporta il detto “Con i se e con i ma la storia non si fa”, ma probabilmente se fosse stato offerto un supporto psicologico e psichiatrico a Dahmer, soggetto evidentemente affetto da malattie mentali, alcune vicende si sarebbero potute evitare.

Modus operandi. È stato accertato che Dahmer fosse un serial killer, ma quali sono i criteri per definire un soggetto tale? Secondo il Federal Bureau of Investigation (FBI), è molto complicato delineare questa figura, ma i canoni per l’identificazione sono i seguenti:

  • l’offender uccide due o più vittime;
  • queste vittime sono estranee, cioè con cui non ha una precedente relazione;
  • l’atto omicida non è causato da motivazioni economiche;
  • le persone individuate sono random, ma in un certo senso simboliche per il killer;
  • l’offender trae una gratificazione sessuale dall’uccisione.

Cerchiamo di delineare il modus operandi di Dahmer, colpevole di 17 omicidi tra il 1978 e il 1991. Prima di tutto bisogna dire che il killer sceglieva delle vittime per le quali la scomparsa non avrebbe destato sospetto. Le 17 vittime, infatti, erano ragazzi giovani (addirittura un minorenne), di origine afroamericana o asiatici, omosessuali, a cui prometteva spesso soldi, rapporti sessuali o divertimento. Inizialmente Dahmer usava drogare le proprie vittime, violentarle, strangolarle fino ad ucciderle, spesso poi venivano squartate e/o sciolte nell’acido. In un secondo momento, il killer introdusse l’uso della lobotomia, cioè perforava il cranio e iniettava acido cloridrico attraverso i fori. Ciò serviva per rendere le vittime prive della volontà cosciente. Spesso, dopo la morte, le vittime erano soggette ad atti di necrofilia. Successivamente, Dahmer iniziò a praticare il cannibalismo, ma probabilmente solo con una vittima. Quello che è certo è che l’offender iniziò a conservare organi e parti dei corpi delle giovani vittime.

Il mostro di Milwaukee. Se da un lato le vicende narrate nella serie sono atroci e alcune scene molto esplicite, dall’altro lato è degna di nota l’interpretazione del protagonista: Evan Peters (tra l’altro già presente in una serie citata in questo blog). L’attore si è calato nel ruolo con anima e corpo, addirittura ha dichiarato di avere indossato ai polsi e alle caviglie dei pesi per abituarsi a simulare l’andatura rigida del serial killer, oltre ad allenarsi per abbassare il tono di voce ed assumere un timbro più simile a quello di Jeffrey Dahmer. Lo sguardo assente e l’apatia che riproduce durante i frame più raccapriccianti rendono Peters un mostro (ovviamente) della recitazione, ricreando integralmente lo stato mentale dell’assassino.

L’accoglienza. “Dahmer” è stata probabilmente la serie tv più chiacchierata dell’anno e il giudizio espresso sia dalla critica sia dal pubblico è stato generalmente positivo. Le serie tv che ripercorrono vicende realmente accadute spesso coinvolgono in modo più diretto lo spettatore: ecco perché “Dahmer” è arrivata in cima alla classifica delle serie tv più viste della storia, guadagnandosi il primo posto e sbaragliando altri grandi successi che tutti noi conosciamo, come “La casa di carta”, “Stranger Things” o “Squid Game”.


La serie Netflix analizzata da una prospettiva socio-criminologica.

Come già evidenziato, la serie Netflix “Dahmer” ha riscosso un incredibile successo. Sembra che si sia sviluppata una sorta di piacere nel vedere violenza, violenza che viene spesso modificata e arricchita da dettagli per intrattenere gli spettatori. Una sovraesposizione ad atti violenti genera, però, anche una maggiore capacità di adattamento, assorbimento e normalizzazione di questi.

Ci chiediamo:

Qual è il limite tra intrattenimento ed etica?

La serie Netflix sembra aver viaggiato lungo il confine tra i due. Sicuramente si denota una mancanza di sensibilità da un punto di vista vittimologico, cioè nei confronti delle vittime. Durante i primi episodi della serie le vittime vengono completamente dimenticate, oscurate dal personaggio di Dahmer. Solo alcuni ultimi episodi prendono in considerazione le persone decedute e le loro famiglie.

Immaginiamo un parente di una delle vittime uccise in questo modo atroce e indescrivibile: ha davvero bisogno di vedere ciò che è accaduto in una serie televisiva, notare che questa ha addirittura avuto un enorme successo e che alcuni spettatori si sono affezionati a Dahmer? Non credo, oltre al fatto che tutto ciò potrebbe scaturire una traumatizzazione vicaria o peggiorare i sintomi di un possibile PTSD (disturbo post traumatico da stress).

Molte persone del pubblico non sono riuscite a distinguere tra persona e personaggio e in alcuni casi sono finite per idolatrare e idealizzare il killer. Non sono rari i casi, infatti, in cui alcuni individui hanno deciso di vestirsi da “Dahmer” per Halloween. Bisogna ricordarsi che non stiamo parlando di un personaggio di invenzione, ma di una persona realmente esistita con disturbi mentali che ha ucciso brutalmente e violentato altre persone realmente esistite.

Un aspetto, invece, che può essere apprezzato è stata la critica al razzismo. Gli episodi sono riusciti, infatti, a denunciare questo fenomeno insito nella società americana (solo di quell’epoca?) secondo il quale, in base a criteri sociodemografici, alcune persone sono migliori e più affidabili di altre. Per fare un esempio: Glenda, vicina di casa di Dahmer e donna afroamericana, fece numerose segnalazioni alla polizia, ma venne sempre ignorata e addirittura schernita. O un altro: una delle vittime, il ragazzo minorenne, poteva essere salvata, in quanto Glenda trovò il giovane incosciente, ma ancora vivo, e chiamò la polizia. All’arrivo delle forze dell’ordine e senza effettuare alcun tipo di controllo, i poliziotti credettero a Dahmer (uomo bianco) e non alle segnalazioni di Glenda o al corpo incosciente del ragazzino. Tutto ciò mi fa anche alla vittimizzazione secondaria, cioè la condizione di ulteriore sofferenza della vittima di fronte ad un atteggiamento di insufficiente attenzione o di negligenza da parte delle agenzie di controllo formale, concretizzandosi in conseguenze psicologiche negative che la vittima è costretta a subire.

La vita reale. Ci sono diciassette famiglie negli Stati Uniti che mai potranno dimenticare con quanta crudeltà Jeffrey Dahmer le abbia private di un fratello, un figlio, una persona con progetti e sogni. Sono proprio loro che, in opposizione all’entusiasmo mostrato dal pubblico nei confronti della serie, si sono scagliati contro gli ideatori di questa produzione che a parere loro non fa che spettacolizzare un periodo terribile della loro vita, costringendoli a rivivere tutto il dolore della tragedia. I famigliari delle vittime, inoltre, sono rappresentati all’interno della serie tv “Dahmer”, nonostante, affermano loro, nessuno abbia chiesto il loro consenso o li abbia anche soltanto resi partecipi del fatto che di questa storia si sarebbe parlato ancora una volta, in questo caso in una serie tv di Netflix, dopo numerose precedenti citazioni nel mondo letterario, musicale e cinematografico.

Di fronte a queste affermazioni sorge spontaneo chiedersi se sia giusto che i servizi di streaming come Netflix producano proiezioni che vanno a toccare così profondamente la sfera personale di qualcuno.

E voi cosa ne pensate? “Dahmer” è una serie tv appropriata, così com’è, senza censure?

– Beatrice & Sara

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