È passato poco più di un mese dal mio arrivo ad Amsterdam e ho già potuto assaporare la sua ricchezza culturale e soprattutto artistica, dal Rijksmuseum (ne abbiamo già parlato in un altro bellissimo articolo) ad una performance con Marina Abramović.
NO INTERMISSION, questo il nome della performance che si è tenuta dal 24 al 30 ottobre al teatro Carrè di Amsterdam, è stata un’esperienza artistica fuori dagli schemi che non mi era mai capitato di vivere prima, sia per la durata che per la modalità.
Se il suo nome non vi dice nulla, Marina Abramović (Belgrado, 1946) è un’artista di origine serba nota per essere la “nonna” della performance art, sfidando i limiti del corpo e il confine tra arte e vita, tra artista e pubblico. A mio avviso una delle artiste più coraggiose che ha messo l’arte così profondamente al centro della sua vita da metterla anche a rischio come in Rhythm 0 (1974), una tra le sue più estreme e note performance.
E, dopo cinquant’anni di performance, Marina Abramović sceglie di ritornare ad Amsterdam, città chiave per il suo percorso artistico e anche personale perché proprio qui ha conosciuto Ulay: l’ex compagno in arte e amore.
Super incuriosita dal concept di “sfumare i confini tra performance e teatro“, e soprattutto di vedere dal vivo Marina, ho deciso di immolare il mio portafoglio per fare questa esperienza, durata la bellezza di 6 ore all’interno di uno spazio teatrale.
Il tutto è iniziato con un discorso preliminare di Marina la quale ha introdotto il concetto della performance di lunga durata, su cui lavora da 50 anni, e ci ha guidati in alcuni esercizi sul controllo del respiro e sulla percezione della propria energia e di quella delle altre persone. Mi ha colpita particolarmente un esercizio in cui ha chiesto di guardare negli occhi il nostro vicino cercando di mettere nello sguardo un amore incondizionato. Accade molto raramente di sperimentare un gesto gratuito di gentilezza, specialmente con un estraneo, e reggere uno sguardo che ti sfiora nell’intimo è parecchio profondo.
In realtà, a parte questa prima parte, in cui siamo stati seduti in questo magnifico teatro di Amsterdam dove ha avuto luogo la performance, Marina è scomparsa dalla scena.
Dunque, vi starete chiedendo, che cosa è successo in quelle sei ore?
Esatto, sei ore, sono entrata alle sei di sera e uscita quasi a mezzanotte e non sono nemmeno riuscita a partecipare a tutte le parti. Parlo di parti perché si trattava di una performance collettiva in cui hanno partecipato 10 artisti (Carla Adra, Abel Azcona, Dante Buu, Yingmei Duan, Mauricio Ianês, Miles Greenberg, Maria Herranz, Anthony Huseyin, Yiannis Pappas, Ana Prvaćki) ognuno con un progetto e una modalità di fruizione diversa m accomunati dall’obiettivo di applicare il metodo Abramović alle loro perfomance di lunga durata.
Dopo il discorso di Marina hanno avuto inizio le dieci performance a cui ognuno era libero di partecipare e di muoversi in totale libertà. Rotti tutti gli schemi e regole che normalmente si hanno a teatro, il Carré si è trasformato in un luogo da esplorare, da osservare, da vivere… in una specie di laboratorio artistico!
È difficile descrivere tutto quello che è successo: ognuno partecipava ed interagiva nella misura in cui voleva, qualcuno si è perfino spogliato e ha iniziato a ballare sotto una pioggia di miele. Una delle performance a cui ho partecipato, ad esempio, consisteva nel poter fruire liberamente di montagne di mattoni, e scegliere come posarli all’interno del teatro. Così ci siamo ritrovati a costruire una strada lungo le gallerie, immaginatelo, centinaia di mattoni disseminati sul pavimento del teatro !
Superato il senso di timore nel rompere certe convenzioni sociali mi sono ritrovata a gustare uno strano sapore della libertà di essere davanti ad molteplici possibilità che la mia creatività e spirito di iniziativa (purtroppo non mi avrebbero potuto suggerire!
La performance che più mi ha colpita è stata quella di Mauricio Ianês che per più di quattro ore è rimasto steso, sotto effetto di qualche droga. All’inizio ho realmente pensato che fosse svenuto qualcuno del pubblico perché attorno a lui si era radunate molte persone e lo contemplavano come fosse morto. Interessantissimo vedere la reazione degli altri: chi si è avvicinato ad accarezzarlo, chi a disporgli una fila di mattoni attorno, chi, subito dopo, a rimuoverli.
Ma a coinvolgermi profondamente è stato ascoltare la sua storia: mentre era incosciente e girovagavo per il teatro mi sono ritrovata nel retro della platea dove l’artista aveva posizionato dei video che aveva realizzato prima della performance. Non vi racconterò la sua vita perché le mie parole non sarebbero abbastanza per descriverla degnamente e soprattutto l’intenso coinvolgimento emotivo provato.
Improvvisamente quella stessa persona che avevo visto poco prima incosciente aveva un volto, una storia, una personalità. Quando l’ho rivisto, nel momento in cui era appena tornato cosciente dallo stato di trance, mi sono stupita di provare un groviglio di tristezza e anche di voler bene a quella persona che si era raccontata in un modo così profondo da lasciarmi addirittura un peso dentro.
Ianês ha così sovrapposto la performance con la sua esperienza di vita tanto da trasformarla in arte.
Conclusa NO INTERMISSION, camminando di notte per le strade di Amsterdam, sono ritornata a casa con la testa piena di emozioni, stupore, anche perplessità ma soprattutto moltissime domande: delle performance così pregne di vita e realtà possono davvero considerarsi arte? Qual è e dov’è dunque il confine tra arte e vita?
Se siete riusciti a leggere fino alla fine, c’è una possibilità che possiate pensare che l’arte vera sia morta oppure che questo tipo di performance vi abbia incuriositi e sorpresi…fatemelo sapere nei commenti! Vanno bene entrambe, l’unica cosa che spero non vi abbia suggerito sia di assumere droghe per diventare performer o riempire di mattoni il prossimo teatro in cui andrete!
-Chiara
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