“Puoi imprigionare il cantante, ma non la canzone”.
Sono le parole di un musicista statunitense di nome Harry Belfante che, a quanto pare, è il “Re del calipso”. Ma non siamo qui per parlare del genere musicale caraibico. La citazione che vi ho riportato fa da introduzione a un interessante documentario che ho visto di recente, a colazione prima di andare in Uni.
Il documentario, disponibile su RaiPlay, si chiama Soundtrack for a Revolution. Uscito nel 2009, il film è stato diretto da Bill Guttentag e Dan Sturman. Il titolo ha attirato la mia attenzione sin da subito: come si fa a resistere a qualcosa così altisonante come “Soundtrack for a Revolution”? Di quale rivoluzione si parlava? Qual era la sua “colonna sonora”?
Subito vi spiego di cosa si tratta e perché, secondo me, dovreste vederlo.
Il documentario
La rivoluzione di cui si parla nel film è quella avviata da attivisti americani (spesso e volentieri neri e bianchi assieme) nella seconda metà del Novecento per protestare contro l’insensato razzismo che divideva la società americana. In settantanove minuti si ripercorre un grande pezzo di storia nordamericana l’epoca di gente normale che ha fatto grandi cose. Rosa Parks, Martin Luther King vengono ricordati, ma si fa onore anche alle migliaia di persone che con loro hanno partecipato alla rivoluzione dei diritti civili.
Altra grande protagonista di questo documentario, oltre alla storia, è la musica: i canti che hanno fatto da colonna sonora all’attivismo fanno da cornice alle immagini e i racconti drammatici dei testimoni.
E proprio le canzoni sono ciò che più rendono prezioso questo documentario ai miei occhi (e alle mie orecchie), perché sono state una scoperta: tra le dieci scelte, ne conoscevo solo due – “We Shall Overcome” “Oh Freedom!”. In più, per l’occasione i brani sono stati interpretati da artisti contemporanei tra cui Wycleaf Jean e John Legend (anche in questo caso gli unici che conoscevo hahaha).
Il Soundtrack della storia
Perché focalizzarsi sulla musica? Forse la risposta può essere trovata nelle parole di uno degli intervistati:
“È stata la musica a darci il coraggio, a darci la forza e a darci la spinta per andare avanti.”
La musica ha avuto un ruolo fondamentale, oserei dire catalizzante in quella rivoluzione. E il fatto di ascoltare i versi di quegli indimenticabili brani assieme ai racconti di chi era in prima fila durante i sit-in e alle manifestazioni in strada mi ha fatto sentire i brividi, come se avessi vissuto quell’epoca di cambiamento.
Peccato, secondo me, che non abbiano incluso Strange Fruit di Billie Holiday. Una canzone controversa del 1939, che ho ascoltato per la prima volta guardando il film Gli Stati Uniti contro Billie Holiday, disponibile su Sky. La cantante ci ha quasi rimesso la carriera, con le forze dell’ordine americane che l’osteggiavano proprio per quel pezzo, che a loro non piaceva. Eppure Billie, nonostante la crudezza del testo, sapeva che andava cantato per scuotere le coscienze, per chiedere la fine dei soprusi contro i neri.
L’eredità della rivoluzione
Oggi purtroppo, la peste del razzismo non è stata ancora debellata del tutto. Per fortuna la rivoluzione è ancora in atto. Mi chiedo però se non stia prendendo una piega diversa da quella degli anni ’50-’60. A volte mi pare che il movimento dei diritti civili stia diventando sempre più radicale, in cui alcuni dei militanti escludono chi li sostiene perché non riuscirebbero a capirli: la comprensione tra gli uomini non sarebbe possibile perché non si ha lo stesso colore della pelle, non si ha lo stesso peso della storia sulle spalle.
Spero che questa mia impressione non sia vera. Senza accettazione, comprensione e coinvolgimento non riusciremo mai a sanare le fratture che ci dividono, superare i pregiudizi ed eliminare le disuguaglianze. Non riusciremo a concretizzare il sogno di Martin Luther King e di tanti che, come lui, settant’anni fa cantavano “We Shall overcome, some day […] We’ll walk hand in hand”.
-A.
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